La diffamazione
Sommario:
- 1=Introduzione: la verità del fatto divulgato esclude il reato di diffamazione?
- 2=La diffamazione per mezzo della stampa: “l’uomo medio” quale criterio di riferimento per l’accertamento dell’offesa all’onore.
- 3=La difesa dall’accusa di diffamazione per mezzo di internet.
1=Introduzione: la verità del fatto divulgato esclude il reato di diffamazione?
L’art. 595 del codice penale punisce “chiunque.. comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.
Dalla lettura della norma risulta che il nucleo dell’incriminazione si concretizza nella divulgazione di una notizia avente la capacità di offendere “la reputazione” di un individuo, la quale deve essere percepita e soprattutto compresa da almeno due persone; nella fattispecie si presuppone che l’offeso non sia nelle condizioni di difendersi, in quanto, se fosse presente al momento dell’insulto, si configurerebbe “l’ingiuria“, la quale non è più sanzionata penalmente.
In merito al concetto di “reputazione” si rileva che viene identificato con la benevola valutazione sociale di una persona, in riferimento all’ambiente in cui esplica la sua personalità. Risulta quindi che la nozione è “relativa“, in quando dipendente dal giudizio collettivo che è per natura “mutevole” nel tempo.
Per chiarire quest’ultimo aspetto “tipico” del reato di diffamazione, si riporta a titolo di esempio l’attribuzione della qualifica di “omosessuale” nei confronti di chi intrattiene regolarmente relazioni sentimentali con le persone dello stesso sesso; in tal caso il reato di diffamazione è da ritenersi escluso in quanto il termine ha perso, nell’epoca in cui viviamo un significato “infamante” come poteva assumersi in passato, anche se tale orientamento sessuale resta ancora “moralmente discutibile“.
Nel caso, invece, si usi l’espressione “frocio schifoso” per indicare la stessa persona è evidente che il reato di diffamazione è ritenuto sussistente, in quanto il vocabolo “frocio“nella cultura moderna è di per se dispregiativo; per di più, l’aggiunta dell’aggettivo “schifoso” non lascia dubbi sul carattere offensivo dell’affermazione (Cass. pen., sez. V, n. 50659 del 26.11.2016 e n. 19359 del 17.5.2021).
Dopo aver delineato i tratti essenziali dell’incriminazione, si concentra l’attenzione sull’interrogativo che è parte integrante del titolo di questo paragrafo; in particolare, se la prova della verità del fatto divulgato sia rilevante ai fini dell’esclusione del reato di diffamazione.
La soluzione più convincente ammette tale prova in virtù dell’art. 21 della Costituzione che riconosce la libertà di manifestazione di pensiero, specificando però che la diffusione deve essere obiettiva, predisposta con linguaggio corretto e si inserisca in un contesto di necessità e pertinenza, al fine di evitare che il destinatario sia “perennemente” bersaglio di discredito.
Prendendo come riferimento tale interpretazione, se riveliamo che una persona ha una relazione con “un uomo sposato“, la divulgazione integra certamente il reato di diffamazione. Infatti l’affermazione oltre ad avere per oggetto un dato sensibile attinente alla vita privata, è mancante di una valida ragione che ne giustifichi la pubblicità e costituisce quindi espressione di un rancore nei confronti dell’interessato, che merita la punibilità (sul tema Cass. pen., sez. V, n. 27616 del 20.6.2019).
Dalla ricostruzione delineata è evidente che non è semplice prevedere se l’accusa di diffamazione possa essere ritenuta fondata, in quanto il reato presenta dei fattori variabili non facilmente individuabili; in ogni caso, un margine difensivo è possibile solo dopo un esame approfondito della vicenda, che tenga conto della singolarità del caso e delle persone coinvolte.
Nell’eventualità sfavorevole in cui l’addebito risulti fondato, si precisa che il reato è comunque procedibile a querela e quindi è da prendere in considerazione la possibilità offerta dall’art. 162 ter c.p. di estinzione attraverso il risarcimento del danno alla parte offesa.
Dopo questa introduzione, nel paragrafi successivi si approfondisce il tema della diffamazione a mezzo stampa e di quella diffusa attraverso internet, le quali presentano tratti particolari rispetto all’ipotesi comune del reato.
2=La diffamazione per mezzo della stampa: “l’uomo medio” quale criterio di riferimento per l’accertamento dell’offesa all’onore.
La divulgazione di notizie tramite la stampa “non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” in virtù del secondo comma dell’art. 21 della Costituzione.
Nonostante il carattere indulgente della previsione è evidente che i giornalisti non sono esentati da responsabilità anche penali, se superano, nella comunicazione di una notizia, quei “limiti” che sono strumentali al rispetto dell’altrui reputazione.
In particolare, la giurisprudenza ha ribadito che il racconto, per essere giustificato, deve necessariamente riferirsi a circostanze realmente accadute e attuali, oltre ad avere un linguaggio non offensivo ed essere idoneo a soddisfare un interesse collettivo per la conoscenza della notizia stessa.
Al riguardo dell’attendibilità, si discute se la verità putativa possa giustificare la lesione all’altrui reputazione, quando venga resa nota una notizia che si credeva “erroneamente” vera.
La giurisprudenza prevalente riconosce la scusabilità dell’errore alla condizione che il giornalista abbia compiuto accertamenti finalizzati a verificare la credibilità della fonte da cui ha preso l’informazione e quindi si è convinto della veridicità di quanto riportato (Cass. pen., sez. V, n. 13069 del 16.2.2021).
Un ulteriore aspetto che merita attenzione è quello che riguarda l’accertamento dell’offensività del fatto e il criterio messo in atto per individuare l’effettiva lesione dell’altrui reputazione. A tal proposito, è stato segnalato il canone della “percezione del lettore medio“, il quale è identificato in colui che valorizza l’articolo nella sua interezza, senza tuttavia una particolare attenzione o sottigliezza di interpretazione e privo di conoscenze altamente specifiche sulla materia oggetto della notizia.
Nello scritto che segue si riporta un caso in cui il criterio in questione ha trovato operatività al fine di escludere il fatto che le parole usate nell’articolo denunciato fossero effettivamente capaci di ledere l’altrui reputazione.
In particolare, in un quotidiano on line, un giornalista predispone un testo che riguarda un noto politico e riferisce che lo stesso “debutta con una multa per abusivismo“; per tale fatto è proposta querela, dalla quale scaturisce un procedimento penale per il reato di diffamazione, aggravata dall’utilizzo del mezzo della stampa ex art. 595 co. 3 c.p. In entrambi i gradi di merito, sia l’autore dell’articolo che il direttore del giornale sono ritenuti responsabili, il primo come ideatore diretto e il secondo per avere omesso di esercitare il controllo ex art. 57 c.p. In particolare si afferma che “i termini “multa” e “abusivismo” richiamano l’area dell’illiceità penale, inducendo nel lettore l’erroneo convincimento, smentita nel corpo dell’articolo, che la parte offesa si fosse resa autrice di comportamenti penalmente rilevanti, nella specie reati di natura edilizia“.
In sede di legittimità si ribaltano le due decisioni di merito applicando “il criterio del lettore medio” in precedenza ricordato (Cass. pen., sez. V, n. 503 del 13.10.2022).
Preliminarmente si afferma che il lettore medio non è un soggetto che dispone delle competenze giuridiche necessarie per identificare il termine “multa” con la sanzione per un illecito penale, facendo piuttosto coincidere l’illecito in una mera infrazione del codice della strada; inoltre si è ritenuto ingiustificato l’accostamento della parola “abusivismo” all’area degli illeciti edilizi in quanto ”abusivo”, è nel linguaggio comune sinonimo dello svolgimento di un’attività senza autorizzazione o di ingresso senza titolo in qualche luogo. Pertanto i giudici di merito hanno predisposto una ricostruzione del caso del tutto estranea non solo al contesto comunicativo, ma anche al significato letterale ed al senso palese delle frasi incriminate.
Inoltre si aggiunge che da una rapida lettura dell’intero articolo emergeva chiaramente come la parte offesa non fosse stata coinvolta in alcun procedimento penale, circostanza che risultava anche nel sommario dello stesso articolo, in cui si chiariva che la sanzione pecuniaria in questione era stata inflitta per una violazione amministrativa.
In conclusione, si è ritenuto l’inciso privo di carattere diffamatorio, in quanto un “lettore medio” non avrebbe avuto le competenze giuridiche per connettere i termini “multa” ed “abusivismo” alla responsabilità penale. Inoltre tale lettore non si sarebbe limitato a leggere le parti in risalto, ma avrebbe certamente esteso lo sguardo all’intero articolo da cui emergeva chiaramente l’effettiva realtà e quindi l’estraneità del politico a qualsiasi addebito penale.
3=La difesa dall’accusa di diffamazione per mezzo di internet.
In merito all’accusa di diffamazione per mezzo di internet è doveroso rilevare che presenta dei tratti non certamente a favore per la difesa.
In particolare, l’ipotesi in questione viene ricondotta all’incriminazione aggravata di cui al terzo comma dell’art. 595 c.p., in quanto realizzata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” e pertanto nel caso di condanna è prevista una pena fino a 3 anni; ai fini dell’identificazione dell’autore del fatto è ritenuto sufficiente un semplice quadro indiziario privo di prove dirette, quale la presenza di un movente, i rapporti confidenziali tra le parti, il “nickname” riconducibile all’imputato e l’assenza da parte dello stesso di una denuncia per furto di identità. Infine è ritenuto documento e pertanto liberamente producibile in giudizio, la copia cartacea della schermata telematica (screenshot) da cui risulta il testo incriminato anche se non certificata da un pubblico ufficiale.
Rispetto a tali elementi prodotti dall’accusa, si possono prospettare le seguenti opzioni difensive.
Preliminarmente valutare se sia contestabile l’attendibilità degli indizi che identificano l’imputato come autore dell’addebito, per poi cercare di accertare se la persona offesa potesse essere stata presente al momento dello stesso fatto anche solo “virtualmente”, ad esempio, perché in quel momento era in corso tra le parti una “chat” in tempo reale, in quanto in tal caso al più potrebbe configurarsi solo un’ingiuria non più sanzionata penalmente.
Un ulteriore aspetto da approfondire riguarda l’eventuale sussistenza di una provocazione a danno dell’imputato predisposta dal denunciante; infatti, in virtù dell’art. 599, il reato non è punibile se l’offesa si è realizzata entro un lasso di tempo contenuto rispetto ad un fatto ingiusto operato da altri.
Infine è da prendere in considerazione la circostanza che le parole pronunciate siano state in grado di vulnerare la reputazione della persona offesa, in quanto la diffamazione è un reato di pericolo “concreto“, per la cui consumazione è necessario provare l’effettiva idoneità lesiva della condotta incriminata in relazione al tempo, al luogo, allo stato sociale della persona offesa e ai rapporti con l’autore della frase incriminata. Ad esempio una semplice amicizia sorta in un social network giustifica una certa confidenza e quindi è difficile ipotizzare la sussistenza del reato per l’esternazione di frasi poco formali, come una semplice battuta umoristica, che commenta la pubblicazione di una foto o un video.
“In tema di diffamazione a mezzo stampa, il carattere diffamatorio di una pubblicazione deve escludersi quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore cd. “frettoloso”), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia.”
Cass. pen., sez. V, n. 10967 del 1 aprile 2020