I reati societari

Sommario:

  • 1=Introduzione: “il falso in bilancio”.
  • 2=Le conseguenze penali di una gestione di fatto in ambito societario.


1=Introduzione: “il falso in bilancio”.

I principali reati in materia societaria trovano la loro regolamentazione nel codice civile, come appendice sanzionatoria alla disciplina delle società; essi hanno la finalità di tutelare molteplici beni giuridici inerenti all’attività d’impresa, quali la trasparenza e correttezza dell’informazioni societarie, l’integrità del patrimonio sociale, il regolare funzionamento delle società e del mercato e le funzioni di vigilanza sulle attività di impresa.

In coerenza con tali interessi particolarmente meritevoli di tutela, le incriminazioni in questione prevedono un trattamento sanzionatorio molto severo, il quale è accentuato dalla previsione in caso di condanna o patteggiamento, anche dalla confisca “per equivalente“, quando non sia possibile individuare o entrare in possesso di beni costituenti il prodotto o il profitto del reato.

Per rilevanza applicativa è basilare nel sistema normativo societario il reato di false comunicazioni sociali di cui all’art. 2621 cc., meglio noto come “falso in bilancio“.

Per capire il motivo per cui un bilancio viene “gonfiato“, dobbiamo preliminarmente ribadire che la sua funzione è quella di rendere conoscibile la situazione patrimoniale e finanziaria di una società; i destinatari di tale informazione sono logicamente i soci, i creditori sociali e gli altri operatori del mercato.

Risulta quindi evidente che con la falsificazione si vuole far apparire una situazione economica più fiorente di quella effettiva, ad esempio per evitare una “costosa ricapitalizzazione“, ottenendo la concessione di credito che non sarebbe stato accordato se si fosse conosciuto il reale patrimonio su cui fare affidamento.

Purtroppo non è escluso che tale simulazione potrebbe portare la società ad essere a rischio di insolvibilità, in quanto non provvista della solidità economica per far fronte all’esposizione debitoria; nel caso in cui la situazione precipiti, si può arrivare fino alla liquidazione giudiziale e in sede penale potrà trovare applicazione il più grave reato di “bancarotta fraudolenta da reato societario“, fattispecie complessa che assorbe il falso in bilancio.

Riteniamo che sia fondamentale per rendersi conto della complessità dell’incriminazione, riportare il testo attualmente in vigore del reato di falso in bilancio previsto dall’art. 2621 c.c., introdotto dalla legge n. 69 del 2015.

Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi“.

Dalla lettura della norma emerge una definizione particolarmente dettagliata del comportamento incriminato, che ha l’esplicito effetto di limitare l’ambito di applicazione del reato. Tale risultato costituisce una conseguenza della pluralità di interessi considerati ai fini dell’introduzione della fattispecie, quali l’autonomia gestionale degli imprenditori, il diritto dei soci e dei creditori di conoscere l’effettiva situazione contabile della società e infine l’interesse dello Stato alla percezione della tassazione.

In ambito di applicativo, tuttavia, si rileva che la giurisprudenza non ha condiviso tale tendenza riduttiva della previsione.

A tal proposito, si ricorda preliminarmente che si è arrivati a ritenere la consumazione del reato anche quando la falsità ha per oggetto “mere valutazioni” e non “fatti materiali” come specificamente indicati nella previsione, purché siano conseguenza di una violazione di criteri “predeterminati o generalmente accettati“.

Si specifica che è comunque permesso un discostamento dal valore effettivo se esso trova un’adeguata giustificazione tale da poter permettere a chi leggerà il testo del bilancio di poter sindacare su tale motivazione e rendersi conto dell’effettiva solidità della società.

Risulta quindi che può avere rilevanza, ai fini della sussistenza del reato, anche la semplice sovrastima di una voce contabile che non corrisponde al valore effettivo, quando tale valutazione non è oggetto di specifico chiarimento (sul tema come riferimento: Cass. pen., sezioni Unite, n. 22.474 del 31.3.2016).

Inoltre merita ricordare che l’idoneità del falso ad indurre in errore, viene valutata dalla giurisprudenza prevalente in relazione ai destinatari finali dell’informazione sociale quali i soci, i creditori e i potenziali investitori. Tale soluzione risulta però difficilmente compatibile con “la concretezza” richiamata nel testo normativo. Infatti è solo l’esperto contabile, dotato di conoscenze tecniche altamente specializzate, che è nelle condizioni di capire se un dato economico è “nella sostanza” vero e quindi si dovrebbe fare riferimento a tali professionisti per l’accertamento in questione.

Un recepimento di tale orientamento si è registrato in sede di merito, nella recente assoluzione di alcuni vertici di un istituto bancario, che erano accusati di falsa contabilizzazione di “titoli derivati“. Infatti la presenza nella nota integrativa dell’effettivo valore di tali titoli è stato sufficiente per escluderne il rilievo penale, nonostante tale informazione fosse desumibile solo da chi abbia letto l’intero documento contabile depositato dagli amministratori e disponesse di conoscenze altamente qualificate in materia.

Prendendo infine in esame l’elemento soggettivo del reato, si concentra l’attenzione sul conseguimento del “profitto ingiusto“; in particolare sul tema è sorto l’interrogativo se tale finalità deve essere ritenuta sussistente “implicitamente” dalla prova della falsità. Per essere conforme all’indirizzo espresso dal testo normativo richiamato in precedenza, è evidente che tale fine deve essere accertato e non dedotto dalla mera predisposizione di un dato contabile falso. Pertanto si può affermare che integreranno sicuramente il reato quelle falsità che sono strumentali per accantonare ricchezza da destinarsi a fini illeciti, come finanziamenti a terzi estranei alla società o per corrompere personale amministrativo. Viceversa il reato sarà escluso a titolo esemplificativo, se il falso ha avuto la funzione di predisporre una mera provvista di credito per finanziare in futuro un adeguamento tecnologico dell’azienda, risultando infatti evidente che in quest’ultimo caso dal falso non scaturisce un ingiusto profitto.

Traendo spunto dalle osservazioni richiamate risulta che l’attività difensiva per il reato di falso in bilancio presenta un grado di difficoltà elevato, in termini di studio della documentazione e per la determinazione di una linea difensiva.

Pertanto si afferma che la figura del difensore deve essere necessariamente sostenuta da quella di uno o più esperti contabili nell’interesse del proscioglimento del cliente.

2=Le conseguenze penali di una gestione di fatto in ambito societario.

Si deve premettere che il titolo di “amministratore di fatto” viene riconosciuto nel nostro ordinamento in virtù dell’art. 2639 del codice civile quando si “esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione” di un amministratore formalmente titolare della carica sociale.

Se l’andamento della società è fiorente non si registrano particolari problematiche, le quali si presentano puntualmente al momento in cui sorgono segnali di crisi o addirittura l’impresa è sottoposta a liquidazione, in quanto si può essere chiamati a rispondere di reati inerenti alla gestione.

Sulla questione dobbiamo preliminarmente rilevare che l’accusa dovrà provare l’esercizio di poteri gestori in maniera “continuativa“; infatti l’esercizio occasionale può al più integrare un’eventuale responsabilità concorsuale con il titolare effettivo ma non un reato tipico societario.

Oltre a tale requisito, è necessario in conformità al testo di legge che l’esercizio dei poteri sia “significativo“, nel senso che devono essere state svolte le attribuzioni tipiche di un amministratore di diritto.

Sul tema si ricorda che però la giurisprudenza suggerisce un’opzione sfavorevole per la difesa; infatti si specifica che per l’estensione della responsabilità non è necessario l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma è sufficiente “l’inserimento del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare” (Cass. pen., sez. V, n. 2514 del 19.1.2024).

Ai fini di chiarezza espositiva, si ricorda che nell’eventualità in cui sia provata la responsabilità penale dell’amministratore di fatto, la stessa non si estende automaticamente anche all’amministratore di diritto per il solo fatto della carica rivestita. Infatti il contributo causale deve essere provato per tutti coloro che hanno contribuito al reato in termini di compartecipazione materiale e morale e sul punto non sono ammesse eccezioni.

Nel caso di specie, un titolare di fatto di una concessionaria di auto è condannato per riciclaggio, avendo acquistato una vettura incidentata al solo fine di ottenere targhe, telaio e carta di circolazione per riutilizzarli in altra vettura provento di un furto. La responsabilità viene estesa anche all’amministratore di diritto in quanto è trovato alla guida dell’auto provento del furto, sulla quale erano state apposte le targhe e il telaio di quella incidentata.

La Corte di legittimità ha annullato con rinvio la decisione, in quanto il semplice indizio della guida della vettura non è ritenuto sufficiente per l’estensione della responsabilità, dovendosi accertare in sede di merito la presenza di ulteriori elementi che confermino la responsabilità concorsuale con l’amministratore di fatto (Cass. pen., II, n. 2885 del 23.1.2024).

Va escluso che l’amministratore formale di una società debba rispondere automaticamente, per il solo fatto della carica rivestita, dei reati commessi da altri soggetti che abbiano operato nell’ambito dell’attività societaria, dovendosi verificare la sua compartecipazione materiale e morale al fatto che potrebbe anche essere sfuggito alla sua cognizione.
Cass. Pen., Sez. II, n. 2885 del 23 gennaio 2024