Le impugnazioni penali.

Sommario:

  • 1=Introduzione.
  • 2=L’efficacia nel nostro ordinamento delle sentenze della Corte EDU: il caso del testimone irreperibile.

1=Introduzione.

Proponendo un’impugnazione, si sottopone il caso ad un giudice diverso rispetto a quello che ha emanato il provvedimento, il quale ha minori probabilità di commettere errori, rispetto a quello precedente, per due motivi.

Il primo, per le maggiori garanzie offerte dalla costituzione delle magistrature di secondo grado, le quali sono in genere in composizione collegiale e formate da persone con diversi anni di anzianità alle spalle, tali che rendono conseguentemente il loro responso più autorevole di quello dei giudici di primo grado.

Come secondo motivo, il giudice che riesamina un caso già deciso è agevolato nel proprio lavoro, potendo ricostruire la vicenda processuale sulla base delle risultanze compiute nel precedente grado; sulla base di ciò il giurista fiorentino Piero Calamandrei ha scritto che “il giudice di appello giudica bene non tanto benché, quanto perché il primo giudice ha giudicato male: anche l’errore è infatti una tappa verso la verità“.

Concentrando l’attenzione sui provvedimenti emessi nel corso di un processo penale, si prende atto che i principali mezzi di impugnazione sono l’appello, il ricorso per cassazione e la revisione. L’unica impugnazione a non essere soggetta a termini è quest’ultima, come previsto dall’art. 629 c.p.p. nella parte in cui si prevede che “è ammessa in ogni tempo a favore dei condannati…la revisione delle sentenze di condanna”.

Il motivo è da ricercare nel carattere di novità dei casi che prevedono tale il rimedio; infatti, oltre ad essere fondati su fatti successivi al passaggio in giudicato di una sentenza, sono indipendenti dal comportamento processuale del condannato.

Si cita a titolo esemplificativo “l’inconciliabilità tra giudicati“, che si realizza quando sono state pronunciate due sentenze di condanna per uno stesso fatto, a carico però di due persone diverse e al di fuori di qualsiasi partecipazione concorsuale. In tal caso è evidente che il conflitto tra le due sentenze non era prevedibile o comunque addebitabile alle parti e quindi è comprensibile che non siano previsti limiti temporali nella contestazione (art. 630 lett. a) c.p.p.).

Gli approfondimenti che potrebbero emergere sulla tematica sono innumerevoli; si è deciso di concentrare l’attenzione sulla questione che in genere il cliente pone al difensore nell’eventualità in cui il primo grado si sia concluso con una sentenza di condanna, in particolare se sia o meno conveniente appellarla.

L’impostazione di fondo dell’ordinamento è “disincentivare” l’impugnazione, in quanto la stessa comporta costi, tempi e personale che lo Stato riesce a reperire con difficoltà; è esempio di tale tendenza la recente introduzione dell’art. 442 co 2 bis c.p.p., secondo cui, nel caso si sia optato per il giudizio abbreviato e si rinuncia a proporre impugnazione contro la condanna, la pena è ridotta d’ufficio di un sesto.

Dopo tale premessa, ci sentiamo di affermare che una sentenza in cui è prevista una pena detentiva considerevole o comunque per un reato “ostativo” al sistema delle misure alternative, non lascia dubbi all’onere dell’impugnazione.

Maggiori difficoltà si presentano per condanne aventi per oggetto pene di scarsa entità, in cui l’impugnazione può avere per l’imputato effetti positivi e negativi.

Nello specifico, i primi si possono concretizzare nella potenziale riforma in assoluzione, nell’estinzione del reato per decorso del tempo e nell’evitare che un precedente sia iscritto nel proprio casellario giudiziale; mentre i secondi sono dati principalmente dai costi da sostenere per intraprendere l’impugnazione e dalla maggiore pressione psicologica che si deve subire per l’allungamento dei tempi processuali.

Il consiglio che ci sentiamo di suggerire in caso di condanne per pene modeste, è legato alla consapevolezza dell’interessato della propria innocenza, nel senso che se ritiene di essere estraneo all’accusa, deve confermare la fiducia al difensore e invitarlo ad impugnare la sentenza.

2=L’efficacia nel nostro ordinamento delle sentenze della Corte EDU: il caso del testimone irreperibile.

Volgendo lo sguardo oltre i confini nazionali, si prende atto che lo strumento per contestare il dispositivo di una sentenza di un giudice interno italiano, è il ricorso individuale alla Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo (Corte EDU).

Il parametro di riferimento dei giudizi dinanzi a tale Corte è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950, alla quale hanno aderito diversi paesi europei tra cui l’Italia (CEDU).

Costituiscono presupposti per l’ammissibilità dell’impugnativa, l’aver esaurito le vie interne, nel caso dell’Italia, quindi, che si abbia ottenuto una decisione definitiva della Corte di Cassazione e che il ricorso sia presentato entro il termine di quattro mesi da quando la sentenza è divenuta esecutiva a livello nazionale.

Nell’eventualità in cui sia accertata la violazione della Convenzione, viene ordinato allo Stato responsabile l’immediato adeguamento e a favore del ricorrente è disposta un’equa soddisfazione per i danni materiali e morali subiti; nel nostro paese la competenza per tale formalità è attribuita alla Corte di Cassazione (art. 628 bis c.p.p.)

Si rileva agevolmente che sono innumerevoli gli interventi della Corte EDU che hanno accertato la violazione delle norme della Convenzione da parte della normativa del nostro paese.

A titolo esemplificativo si richiama l’incidenza, che ha avuto la giurisprudenza di Strasburgo, sul tema del testimone irreperibile citato dall’accusa.

In particolare, si pone l’interrogativo se siano utilizzabili ai fini del riconoscimento della responsabilità penale, le dichiarazioni rese da una persona durante le indagini, che si è resa irrintracciabile al momento dell’audizione in giudizio.

A livello nazionale, dobbiamo ricordare che la materia ha trovato fondamento costituzionale nell’art. 111. In particolare, il comma 5 prevede che spetta alla legge l’individuazione dei “casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio…per accertata impossibilità di natura oggettiva“. Il comma 4 pone, però, un limite a tale deroga; infatti si afferma che “la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte  dell’imputato o del suo difensore“.

Nel codice di procedura penale la materia in esame è regolata dagli artt. 512 e 526 co. 1 bis, i quali prevedono che l’utilizzabilità della dichiarazione deve essere subordinata al fatto che la persona non si deve essere volontariamente sottratta al contraddittorio e che l’eventuale sottrazione non deve essere stata prevedibile.

Prendendo infine in esame la Convenzione, risulta che la norma di riferimento è l’art. 6, secondo cui “ogni accusato ha diritto a esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”.

Secondo la Corte europea, tale articolo garantisce la prerogativa di poter interrogare l’accusatore e quindi nel caso in cui non sia garantita, la dichiarazione raccolta in “segreto” non può valere per fondare in modo esclusivo la responsabilità per il fatto, occorrendo altri elementi di prova, i quali compensino la mancata assicurazione del diritto in esame; tale onere trova inoltre applicazione anche se il contraddittorio è divenuto impossibile per irreperibilità, morte o grave infermità del dichiarante (Carfagna contro Italia, ric. 26073/13 del 12.10.2017).

La Corte di Cassazione, prendendo come riferimento tale orientamento, suggerisce “un’interpretazione conforme” della normativa interna. In particolare si afferma che per ritenere utilizzabile in giudizio la precedente dichiarazione, non è sufficiente che l’impossibilità di audizione si fondi su “una verifica burocratica e routinaria, come il difetto di notificazione o le risultanze anagrafiche“, essendo invece necessarie ricerche che si estendano anche al territorio estero, in cui sia probabile che il testimone si trovi. Infatti solo un accertamento effettivo che abbia sfruttato ogni mezzo a disposizione del giudice, permette di escludere la possibilità che il teste si sia volontariamente e liberamente sottratto al confronto con l’accusato e al suo difensore.

Nell’eventualità in cui le ricerche, nei termini indicati, diano esito negativo e pertanto le dichiarazioni scritte siano acquisibili, si è imposto, come suggerisce la giurisprudenza della Corte EDU, che tali dichiarazioni devono essere esaminate “congiuntamente ad altri elementi di riscontro” sulla falsariga dell’art. 192 co. 3 c.p.p. e solo nel caso in cui tale accertamento si risolva in una convergenza, potranno essere utilizzate ai fini del riconoscimento della responsabilità penale (Cass. pen., sez. IV, n. 3384 del 3.4.2024).

In conclusione, la mera irreperibilità di un testimone, non permette al giudice di poter utilizzare, ai fini della decisione, i testi scritti delle precedenti dichiarazioni. Nell’eventualità in cui tale procedura non sia rispettata, è evidente che potrà costituire un valido motivo di impugnazione del provvedimento. E’ questa una conquista di civiltà ottenuta grazie alla Corte di Strasburgo.

E’ ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta.
Art. 629 c.p.p.